domenica 30 settembre 2018

Black Jack

C’era tutta quella montagna incantata di ritagli, foglie e libri sul piccolo tavolino, ma Henry dov’era? Si era forse lanciato da quell’altura e aveva spiccato un volo pindarico?


Trattasi di un “poliziesco” (molto sui generis) antiutopico, avvolto in una destabilizzante atmosfera paragotica. Un oggetto curioso e sghembo, che, pure, riesce a tenersi bene in equilibrio sul piano inclinato che lo sorregge, grazie anche a un’accurata, raffinata forma di depistaggio lessicale. Un’ironia originale informa e manipola il senso della storia, rovesciandone le prospettive, con un trattamento di supercazzole e calembour, che risaltano come brevi scosse telluriche. E poi, di contro, cala la mannaia:

Nel quotidiano buio di ipocrisia fatto di “prego si accomodi” e “scusi se la disturbo”, l’omicidio era una sincera lama di luce.

E cos’era poi essere vivi? Avere freddo, avere fame, avere prurito, avere paura.

La vicenda s’aggrappa e si sostiene a una indeterminatezza paradigmatica, poi si precisa, senza rinunciare all’indefinito quid che la sostanzia; ma qui è sempre un alto (altro) senso di scrittura che si antepone a canoniche sovrastrutture, a canovacci romanzeschi già ampiamente sperimentati. Poi, come se i fraintendimenti non bastassero, ecco riemergere dal fondale della storia oscure intermissioni elettriche: loop di digressioni che sfidano la penetrazione del lettore, e poi deviazioni sceniche, di antefatti costitutivamente paralleli alle vicende narrate. Quando comincia a delinearsi il profilo di un possibile killer seriale, inizia la sfida agli stilemi classici, la sfida al “genere”. Appare chiaro che qui una idea di mondo prevale sulla spicciola trama, ma Water conosce bene i trucchetti del mestiere per tenere desta l’attenzione del lettore. Poi, altre rotture della linearità: Alla rivelazione di un assassinio succede il preambolo. Come forma di sovvertimento, alcune vitali informazioni sono fornite al lettore un istante prima che al detective Jack. Il romanzo procede al lento incastro dei tasselli diradando la nebbia che lo ammanta. La vicenda si dipana per sussulti e contrazioni, lampi e scosse elettriche. Presi nelle spire malate di un massiccio sperimentalismo, si esce dal trituratore finanche con la soluzione del “giallo”.

Di simili prove narrative di solito si dice: romanzo coraggioso. La definizione non mi convince. Water ha scritto quello che doveva scrivere. Non è un atto coraggioso seguire il proprio afflato artistico, è un atto imprescindibile. Coraggio ci vuole a non tenerne conto.


Ricordati: in ogni gioco d’azzardo, vince sempre il banco. Non farti ingannare da qualche isolato colpo di fortuna. Non cascarci come i giocatori patologici. Non farti sedurre da qualche sporadica botta di culo. Si tratta di trappole disseminate ad arte, come sementi sterili nel solco della sconfitta. Alla lunga è sempre e solo il banco a vincere. E tu cosa credi di essere? Te lo dico io: sei un giocatore nel gioco della vita. Quindi sei destinato a perdere. Non ci sono cazzi. Puoi inginocchiarti, prostrarti, gemere, supplicare, invocare... Croupier! Dealer! Dio! Comunque perderai.


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