domenica 16 settembre 2018

THE GLOAMING




Quando uscì Ok computer (1997) lo comprai piratato da un napoletano che aveva una bancarella in via del Gallitello (per i non potentini: zona sinistrata, d’ispirazione post-apocalittica, pure una Centrale Elettrica che svetta e pare voglia fulminarti. Uno scenario distopico che sembrava abitato da gente traumatizzata dall’incombente salto nel nuovo millennio. Col senno di poi, non poteva esserci luogo migliore per spacciare le dodici tracce di Ok computer, che proprio da scenari del genere erano avvelenate, e dentro quello spaesamento e quell’incubo innervavano le loro note sghembe).

All'epoca il posto era diverso, mancavano le sopraelevate giapponesi, ma la bancarella era qui.

Al primo ascolto non ci capii un cazzo e lo riportai indietro. Non c’era niente di mio gradimento e scelsi, boh, forse un CD di Everything but the girl (lo avrò ascoltato due volte in vent’anni). Eppure amavo già The bends. Devo ammettere che il problema ero io. All’epoca ero un appassionato di rock americano mainstream. Hootie & the blowfish, e cazzi vari. Ma anche roba ancora più popular. Poi sono uscito definitamente dalla caverna. Eppure ero ancora troppo legato ai vecchi schemi per capire qualcosa di Kid A, tre anni dopo. Smaltita la delusione iniziale, solo con il passare dei mesi e degli anni vidi ergersi davanti a me il monumento di Kid A/Amnesiac in tutta la sua disdegnosa maestà. 

Stefano Solventi, giornalista musicale, scrittore (all’attivo anche due romanzi musicali), scrive un libro da sballo, un trip lisergico per Radioheadiani ma da raccomandare a chiunque ami la musica rock (Radiohead a parte, nel libro si racconta l’evoluzione del rock negli ultimi trent’anni, come è morto o, meglio, come ha cercato di rinascere sotto nuove forme, fino alle più recenti - e disastrose - derive algoritmiche per una musica sempre più "confezionata", tagliata su misura delle masse; una questione di affari, che esclude ogni tipo di ricerca artistica). 

The gloaming è un lavoro che rigetta l’idea superficiale di una cultura a compartimenti stagni, e indaga le ragioni profonde mettendo tutto in relazione. I passaggi da The bends a Ok computer a Kid A visti nell’ottica di un cambiamento epocale. Le mutazioni psicologiche, tecnologiche, storiche, politiche si riverberano e informano i lavori della band, che però si rinnovano nella coscienza istintiva che porsi da angolazioni sempre diverse, superare puntualmente i propri codici espressivi, è divenuto necessario per significare ancora. Mai addomesticabili dalle mode estemporanee, radicati nel sostrato culturale, ne assorbono le ragioni e al contempo lo contagiano, facendo musica profeticamente da un tempo che verrà, un tempo imminente. 
I Radiohead accettano il fatto che “per riuscire a farlo il rock rinunciasse a gran parte di se stesso, a costo di non essere quasi più rock.” L’autore riferisce queste parole agli U2 di Achtung baby e Zooropa, ma si può dire lo stesso dei cinque di Oxford, che però lo fanno in una chiave molto meno mainstream, e con ben altri esiti non soltanto artistici.


“Mentre in Bono e soci (in Bono soprattutto) andava definendosi (l’impegno) come ingrediente e additivo dell’iconografia complessiva, naturalmente orientato verso i titoli cubitali e le pose da copertina, e depotenziandolo perciò come momento espressivo, nei Radiohead l’impegno iniziò a definirsi come un immancabile substrato poetico. A cui però non consentirono mai di soverchiare tutto il resto.”

E poi ogni singolo album, analizzato traccia per traccia. Un viaggio commovente nella voce allucinata di Yorke, dentro il segreto dei suoi testi, nella creatività fuori controllo del più giovane dei fratelli Greenwood. L’importanza decisiva che un live di Jeff Buckley ebbe nella registrazione della versione definitiva di “Fake plastic trees”. E poi una proposta letteraria e intellettuale, uno scandaglio della realtà, una visione, da chi ha vissuto il crepuscolo.

Solventi ci conficca letteralmente le sue idee in testa con un punteruolo affilato e un martellamento pieno di grazia, anche grazie alla reiterazione di alcuni concetti cardine. Anche se sviscerati da angolature diverse, è questo forse l’unico difetto – difettuccio forse fisiologico, inevitabile – che riesco a trovare in questo arrapantissimo e (per me) necessarissimo libro.


Il signor Yorke in una fase poeticamente impegnata, versione Gangsta Beach



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