giovedì 23 novembre 2017

America e il Disperso

Mi disse un giorno mio zio, il poeta Vito Riviello,
https://it.wikipedia.org/wiki/Vito_Riviello
che Kafka era solito scompisciarsi dalle risate quando leggeva le sue creazioni agli amici. 


Mi meravigliai: io m’ero fatto l’idea di una persona infinitamente triste: uno che immaginava di trasformarsi in scarabeo stercorario, o di venire accusato al suo risveglio di non si sa bene cosa da una coppia di inquietanti funzionari non poteva anche essere divertente, come se l’autore dovesse somigliare per forza alla sua opera. Poi lessi America con più attenzione e mi resi conto che sotto quel cappellino nero alla Charlot (mi riferisco a una foto facilmente reperibile tramite google), dietro quello sguardo raggelante si nascondeva anche un guitto. America è un romanzo senza speranza. Sin dall’inizio Karl si sente spiazzato dall’immensità che lo circonda, nei cui dedali è destinato a far perdere le sue tracce. I battelli, certi strani corpi galleggianti, le onde del mare nel porto di New York lo turbano

“Era un movimento senza fine, una irrequietudine che dall’inquieto elemento passava sui deboli uomini e sulle loro opere”

ma il romanzo è anche attraversato da un umorismo scoppiettante, con squarci comici che sembrano immagini di film di Chaplin, quadri di Chagall.
Al suo arrivo negli Stati Uniti Karl è pronto a scendere dalla nave ma si rende conto di avere lasciato l’ombrello in cabina. Affida la valigia a una persona, si perde, bussa a una porta e conosce il fochista. Questi lo porta con sé, in una stanza dove si trovano alcune personalità della nave. Qui Karl fa una perorazione in difesa del fochista, un tedesco, il quale è destinato a perdere il suo lavoro, in quanto il capo macchinista, il romeno Schubal, non vede di buon occhio gli stranieri.

“Corse dritto attraverso la stanza urtando leggermente la seggiola dell’ufficiale; l’usciere gli corse dietro piegato in avanti e con le braccia spalancate come se si trattasse di acchiappare un insetto, ma Karl fu il primo ad arrivare vicino alla scrivania del primo cassiere, alla quale si afferrò con tutt’e due le mani nel caso che l’usciere tentasse di tirarlo via.”

La cosa è bislacca, non sembra verosimile. Perché Karl difende quell’uomo appena conosciuto? Eppure non facciamo fatica a crederci. Che tipo è questo Karl Rossmann? Certo, il fochista è tedesco come lui, ma quando Karl viene a saperlo, nella seconda pagina del romanzo, la notizia non sembra fargli né caldo né freddo. Kafka vuole prendersi gioco di noi? O c’è altro? Se torniamo indietro di poche pagine scopriamo che Kafka ci aveva dato nell’incipit un’informazione vitale, che forse ci aiuta a delineare la psicologia di Karl. In patria, il ragazzo sedicenne, è stato sedotto da una serva e i poveri genitori lo hanno spedito negli Stati Uniti a espiare le proprie colpe. Probabilmente si sente vittima di un’ingiustizia, e questo stimola il suo interesse per le vicissitudini del connazionale. Tanto più che Karl sa che in America ci sono prevenzioni contro gli stranieri, e forse il difficile rapporto tra il capo macchinista e il fochista è per lui un assaggio, un’anticipazione degli ostacoli che troverà in terra straniera. Fatto sta che le prime quattordici pagine sono già un tourbillon di avvenimenti, depistaggi, contrarietà, denunce ed equivoci. Quando il fochista prende la parola Karl fa una cosa un po’ curiosa



“Con che gioia stava ad ascoltarlo Karl, in piedi vicino al tavolo abbandonato del primo cassiere, dove per la soddisfazione che provava seguitava a dare dei colpetti sopra una bilancia da lettere!”

E ancora:

“E Karl passava le sue dita fra quelle del fochista che si guardava intorno con gli occhi lucidi come se provasse un piacere che nessuno poteva contrastargli.”

In questo mondo onirico che non sembra conoscere confini è lecito assumere come perfettamente normali gesti imprevedibili e clowneschi – che non sembrano davvero succedere. Sembrano più degli stratagemmi per esemplificare sentimenti (nella loro versione più pura, senza il filtro dei più consueti espedienti narrativi). La scrittura che anziché puntare all'esterno è tutta tesa verso l'interno, verso quel mistero insondabile che è l'umano. 

“Entrò un marinaio, piuttosto in disordine nei vestiti, e con un grembiale da cameriera legato attorno alla vita. “Fuori c’è gente” gridò dando in giro un paio di gomitate come se fosse ancora in mezzo alla folla (...!!...). Finalmente si ricompose e voleva mettersi sull’attenti davanti al capitano, quando si accorse del grembiale, se lo strappò di dosso, lo gettò a terra ed esclamò: “Che vergogna, mi hanno legato addosso il grembiale d’una cameriera.”

Ma ecco che entra in azione Schubal, e allora appare più chiaro come mai Karl si sia lasciato trascinare nell’ufficio del capitano.

“Se almeno i suoi genitori lo avessero potuto vedere in quel momento, come difendeva il bene in terra straniera e davanti a personaggi importanti, e come, anche se non aveva ancora riportato la vittoria, si preparava a combattere l’ultima battaglia! Forse che allora avrebbero cambiato l’opinione che avevano di lui? Forse che l’avrebbero fatto sedere tra loro e l’avrebbero lodato? Forse che una volta, una volta almeno lo avrebbero guardato negli occhi che teneva rivolti verso di loro con tanta devozione?”

Quella al fianco del fochista è una battaglia della guerra che Karl sta combattendo con i suoi genitori. (Non è una novità in Kafka il risentimento verso il padre)

Per esemplificare la leggerezza in letteratura Calvino cita un racconto di Kafka, Il cavaliere nel secchio.

Il cavaliere del racconto si reca con un secchio da un carbonaio, per chiedere un po’ di carbone. Il secchio è vuoto, ed è talmente leggero da spiccare il volo, e il suo proprietario può cavalcarlo come un quadrupede. Il secchio è così desolatamente privo di carbone da risultare invisibile alla moglie del carbonaio, che lo scaccia via come se fosse una mosca. È un’immagine molto bella, ma se fossi stato in grado di scrivere le mie Lezioni avrei citato quello che a me sembra un sogno che Kafka si diverte a insinuare nel corpo di America: Karl Rossmann in fuga dal poliziotto, compie salti troppo alti e quasi si libra in volo.

“Egli volava o piuttosto precipitava giù per la strada che diveniva sempre più ripida, solo che, distratto dalla sua sonnolenza, faceva spesso salti troppo alti che non servivano a null’altro che a fargli perdere tempo”.

Serve qualche istante di riflessione per afferrare tutta la bizzarria di queste righe, che come sempre hanno la maschera della più totale ordinarietà. Perché un uomo che scappa decide di fare salti così spropositati? Sono chiaramente un freno alla fuga. Ma soprattutto perché mai la sonnolenza dovrebbe distrarlo? Un uomo stanco evita di saltare. Qui sembra che la sonnolenza sia una condizione necessaria per fare salti molto alti. Eccolo il guitto sotto il cappello di Charlot. 
Karl Rossmann non è un cavaliere immaginario, ma un ragazzo in carne e ossa, che vive in un luogo preciso dello spazio e di cui conosciamo le origini europee. Il suo volo, anche se non è destinato a farlo smarrire nelle Montagne di Ghiaccio (come il cavaliere del secchio), lo porta sufficientemente in alto da consentirgli di guardare da posizione privilegiata buona parte di tutto il resto della letteratura del Novecento. 



1 commento:

  1. La recensione di America mi sembra straordinaria, il tuo romanzo spero corrisponda

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